A distanza di quasi dieci anni dal successo ottenuto con il format Il più grande pasticcere d’Italia, Sebastiano Caridi, oggi, non si ferma. Il Willy Wonka romagnolo d’adozione, le sue origini sono infatti calabresi, con costanza e grande sforzo sta scalando le classifiche dei palati nazionali e non solo, oltre che quelli della critica, grazie alle sue doti di pastry chef di altissimo livello. Basti pensare che oggi sono due le pasticcerie del brand Sebastiano Caridi, la prima, storica, a Faenza, dove c’è il quartier generale, la sua “fabbrica di cioccolato” potremmo dire, aperta subito dopo aver vinto il format televisivo. La seconda invece a Bologna, a pochi passi dal Nettuno. Adesso però arriva anche il suo terzo punto vendita, nel cuore della motor valley romagnola, nel centro di Imola in uno storico locale del gusto chiamato ex Bacchilega. Pasticcere e soprattutto imprenditore, lavorano assieme a Caridi quasi un’ottantina di dipendenti, Il miglior pasticcere d’Italia 2015 però non ha perso la sua capacità interpretativa nel mondo dell’alto artigianato di pasticceria. Con lui abbiamo affrontato un breve viaggio alla scoperta della sua filosofia, della sua notorietà, sullo stato di “salute” di una delle arti che identificano al meglio il made in Italy del gusto nel mondo: la pasticceria.

A distanza di dieci anni da quell’importante risultato nella sua vita, quanto è cambiato l’approccio verso la pasticceria?

«Direi poco e tanto al tempo stesso. I binari sui quali oggi come ieri opero, sono quelli della qualità e dell’emotività. Fare pasticceria è forse un lusso, ma proprio per questo diventa fondamentale riuscire a creare un sogno, un’emozione verso chi si fida e si lascia guidare in un’esperienza che non è solo di nutrizione ma di totale empatia con il palato. Questo l’ho sempre fatto prima da dipendente, poi da artigiano e adesso da imprenditore. Quindi se da una parte è cambiata, crescendo, la notorietà mediatica, dall’altra questa non ha inficiato sul mio modo di pensare, realizzare, vendere e comunicare la mia personale interpretazione della pasticceria contemporanea. Cioè essere costante e determinato a fare bene e buono».

Secondo lei la pasticceria italiana sta seguendo questi indirizzi?

«Direi di sì anche se serve un’apertura e una voglia di contaminazione e condivisione da parte del mondo dell’artigianato legato alla pasticceria. Lo vedo quotidianamente attraverso uno dei rami di azienda che abbiamo creato che è quello dell’affiancamento e consulenza verso altri collegi sparsi in giro per lo Stivale. Serve comprendere che da bravo artigiano si deve saper mettere sullo scaffale quello che la clientela vuole, a volte quello che non si aspetta, ma soprattutto quello che lo incuriosisce. Il tutto seguendo il mantra della serietà nella ricerca della qualità di prodotto».

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Lei ha sempre sostenuto che la pasticceria è un “lusso”. Alla luce di questa idea come saluta o giudica il fatto che anche grandi grif della moda, Armai e Vuitton solo per fare un paio di esempi, hanno iniziato a fare prodotti di pasticceria e cioccolateria di brand?

«Che è un gran bel messaggio. L’importante è farlo con la consapevolezza che la qualità artigianale, anche nella pasticceria, deve saper trasmettere un’unicità, un’esperienza. Unire due ambiti così diversi ma al contempo così identificativi del lusso italiano può sempre e solo far bene. Si spostano i target di riferimento, ovviamente, ma la sostanza non cambia. Se fai qualità il mercato risponde positivamente. C’è sempre più bisogno di emozionarsi, e anche una pralina, una crema, una fetta di torta o biscotto che sia possono e devono sempre di più saperlo fare. Così come una mise da pret a porter».

Il mondo della pasticceria e le tendenze alimentari contemporanee sembra possano non sempre andare a braccetto. Questa estremizzazione del benessere che ruolo gioca nella possibilità di crescita del comparto?

«Non la vedo così black and white. Anzi. Togliersi uno sfizio, per il palato e per la mente, con qualcosa di buono, fatto artigianalmente e a regola d’arte, capace di fare scoprire consistenze, profumi, aromi, magari anche nuovi ma sempre e comunque realizzati e pensati per creare la perfetta emozione, non necessariamente inficia sul benessere nutrizionale. Anzi. È forse proprio l’opposto. Togliersi queste pillole di soddisfazione e gusto rendono la vita un po’ più dolce, felice e serena. Mangiare bene e sano non significa non mangiare dolci con equilibrio. Il pasticcere è noto, non a caso, per fare i dolci, snaturarne l’essenza e la sua ragion d’essere non serve e non servirà a niente».

Quali sono i suggerimenti che si sente di dare a chi, magari giovane, intende abbracciare la sfida dell’alta pasticceria?

«Beh in primis avere l’umiltà e la capacità di ascoltare gli altri, che siano clienti, colleghi o critica. Poi la determinata consapevolezza nel saper credere in sé stessi. Oggi la nostra offerta viaggia su circa 800 tipologie di prodotto. Dalle torte tradizionali alle creme spalmabili, dai gelati ai mignon, dai macaron al salato, abbiamo un mare di possibilità di soddisfacimento dei gusti. Al contempo però sappiamo che se il mercato non ci dà feedback positivi su una nostra proposta questa esce dal carnet del bancone. La si ripensa, eventualmente la si aggiusta e la si modifica, cercando sempre di proporre qualcosa che invogli, con serenità, all’acquisto. Sembra banale ma da imprenditore, questo fa la differenza tra l’apertura e la chiusura della nostra attività. Senza dimenticare la professionalità, fondamentale, dei collaboratori. Da quelli che stanno in laboratorio fino a chi serve dietro al banco. Il segreto di un possibile successo credo stia in un equilibrio mentale e operativo di tutte queste variabili».

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Se la cucina lavora sempre di più sul concetto di materia prima, immaginiamo sia così anche per la pasticceria?

«Sono due mondi paralleli. La qualità è qualità in qualsiasi declinazione la si voglia concretizzare. Noi facciamo una ricerca continua sulle materie prime e sui processi di trasformazione. Cerchiamo di utilizzare tecnica e tecnologia che ci aiutino a esaltarne le proprietà. Diventa difficile oggi gestire, da un punto di vista aziendale, il concetto di qualità perché i costi si stanno alzando in modo vertiginoso, ma è una sfida che non possiamo perdere, perché è quello che la clientela vuole e cerca sempre di più. Io non abbasserò mai la qualità offerta, bisogna però scendere a dei compromessi, da una parte e dall’altra del banco».

Chef, nel 2023, a Faenza, ha subito uno schiaffo importante vedendo la pasticceria, il laboratorio e tutto il lavoro costruito negli anni precedenti finire sotto oltre un metro di acqua e fango, come si è rialzato?

«Io sono così, non demordo, non voglio più farmi sopraffare dalla negatività. Grazie a una solidarietà che non potrò mai smettere di ringraziare, in primis dai dipendenti e colleghi e poi soprattutto dalla clientela nel giro di brevissimo tempo siamo riusciti di nuovo ad aprire. La fidelizzazione e la fiducia che le persone. Questo è un segnale e un insegnamento, credere in sé stessi per il bene di tutti, che non posso dimenticare».

Oggi Sebastiano Caridi si sente più pasticcere o imprenditore?

«Purtroppo per questioni oggettive sono sempre meno con le mani in pasta e sempre più immerso nelle dimensioni gestionali dell’azienda, ma questo non toglie che il mio essere pasticcere si sia trasformato. Oggi magari più basato sull’istanza creativa, poi realizzata dai miei collaboratori, a discapito della creatività manuale. Ma sono, e sempre rimarrò, un pasticcere».

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