Sedersi a tavola, oggi, in Italia, è sempre più questione di portafoglio, di prestigio, di manierismo? Uscire al ristorante può essere ancora emozionarsi per un piatto che lo si possa ricordare anche anni dopo averlo assaggiato? Il fine dining ha ancora un ruolo trainante per la cucina italiana? Domande che stanno, in questo periodo storico, diventando sempre più incalzanti e condivise. Parlare di ristorazione in Italia significa, infatti, perdersi in semantiche di palato eterogenee. Dalla trattoria all’osteria passando per ristoranti turistici, gourmet, monotematici, della tradizione si arriva fino a quelli che disegnano costellazioni ad altissima capacità esperienziale. Gli “stellati” per intenderci. Guru del gusto che da Nord a Sud, per la “Bibbia Rossa del piacere del palato”, nel 2023, sono arrivati a essere 385. Un universo di possibilità che sta però disegnando riassetti di mentalità, di scelta e di gusto in chi, poi, in quei tavoli ci si siede, mangia e paga. Una diversificazione che è “patrimonio mondiale dell’umanità”, magari non ancora riconosciuto a livello istituzionale, ma di sicuro fa parte dell’idea condivisa di chi, sempre e comunque, a pranzo o cena, sia italiano o straniero, decide di mettersi la giacca e uscire.

Nutrirsi o emozionarsi?

Oggi mangiare è un atto di gola o di cuore? Questione che attanaglia in modo trasversale il comparto del food. Una scelta che diventa sempre più divisiva e per certi versi escludente perché crescono le complessità ambientali e personali, cala il potere di acquisto e la capacità di spesa delle famiglie, diminuisce la possibilità di poter decidere di scegliere emozione invece che pagare le bollette a fine mese. Non è cosa di poco conto.

La ristorazione italiana, nonostante tutto, è uno degli asset che ha saputo, sa e probabilmente saprà adattarsi. Perché se è vero che l’offerta è diversificata, questa però non prevede e non deve imporre una piramide a sezioni stagne. Ovvero, c’è, soprattutto per quanto riguarda la questione prezzo. C’è per la ricercatezza e l’appropriazione di tecniche in cucina più contemporanee, ma può essere sempre e comunque contaminata. Una segmentizzazione dell’offerta non significa semplicità. Meglio ancora: semplicità non significa banalità. La tavola italica offre un ventaglio di opportunità gustative che non solo si regionalizza ma diventa sempre più capace di parlare la lingua del gusto attraverso un atto creativo, che peschi nella tradizione, nella dimensione domestica o nella ricercatezza assoluta, che parte dalla cucina e arriva fino in punta di forchetta del commensale. Lo conferma, per esempio Ciccio Sultano: «L’alta ristorazione ha il dovere e l’interesse di far felice il cliente. Deve concentrarsi su una cucina buona, masticabile e vera. Chi si siede alla tavola di un ristorante deve riportare con sé una parte dei soldi che ha speso. In altri termini, godersela, sentire di aver fatto un’esperienza non comune. Il futuro sarà florido se si continua a lavorare con coscienza, determinazione, rispetto, sostenibilità e sostanza.

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L’alta ristorazione ha il dovere e l’interesse di far felice il cliente. Deve concentrarsi su una cucina buona, masticabile e vera

Ciccio Sultano

Ritorno alla semplicità? La semplicità non è facile, al contrario». A dimostrarlo c’è anche Arnaldo, la Clinica Gastronomica di Rubiera (Reggio Emilia). Realtà che sfiora il secolo di vita (fu aperta nel 1936) che attraverso una costante e mai stravolta offerta di semplicità nel tempo e nel piatto, parliamo di bollito misto e cappelletti, è l’unico testimone ancora operativo della prima pattuglia degli alfieri stellati italiani. Della serie anche la semplicità ricercata premia.

Servire felicità

La Stella Michelin non dà la felicità nel nostro lavoro. Il manierismo, l’estremizzazione della tecnica e della ricerca sta forse tradendo quella che è l’anima e la storia della cucina italiana.

Marco Scandogliero

Prendiamo l’esempio, in questo XXI secolo di Marco Scandogliero, titolare de Le 4 Ciacole che da storica e rinomatissima rivendita di salumi e formaggi nella provincia veronese, nel 2008 tenta il salto incrementando i coperti della sala per arrivare poi, prima del Covid, a lanciarsi in un’altra avventura: ottenere l’ambita stella. Poi, l’anno dopo il ripensamento. «La Stella Michelin non dà la felicità nel nostro lavoro. È vero è una strada importante nel curriculum di chi fa questo mestiere, un punto qualificante ma non deve essere l’obiettivo finale. Mangiare è atto intimo e sociale al contempo. La Michelin “impone” canoni che forse tradiscono questo binomio. Lo abbiamo visto in questi ultimi anni. Andare al ristorante, anzi alla trattoria, deve essere un’immersione nella convivialità. Il manierismo, l’estremizzazione della tecnica e della ricerca sta forse tradendo quella che è l’anima e la storia della cucina italiana: gusto, qualità e verità di quel che mangi. Per questo – conclude – quello che mi sento di suggerire ai colleghi che con passione proseguono in questa meraviglioso e difficile campo, è di continuare a perseguire la felicità attraverso un senso autentico di rispetto verso di sé, verso la propria storia e verso i clienti».

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Credo che ci sia una scelta quasi obbligata, nel breve periodo, di un ritorno a format più “popolari” e immediati. Magari con le tecniche e le competenze acquisite all’interno dell’alta ristorazione ma con un approccio più semplice e immediato.

Giuseppe D’Aquino

Altro alfiere di questa necessaria iniezione di semplicità e felicità a tavola è Giuseppe D’Aquino. Tornato dopo aver calcato ribalte stellate sulle rive del Garda, ha aperto Gesti, dove propone una cucina che attinge a piene mani dalla dispensa campana, puntando però su un concept diverso – «molto molto semplice e molto molto italiano» lo definisce – che ricalca seppur in modo più fresco l’idea della trattoria italiana dove a fare la parte del leone sono i piatti tipici italiani, con un focus sulla cucina campana. «Questo concept a mio avviso rappresenta un po’ il futuro della ristorazione», spiega. Piatti semplici, accessibili nell’idea e della spesa, con uno scontrino medio che non dovrebbe superare i 50 euro. L’idea è quella di un locale molto democratico, rilassato e accogliente.  D’Aquino sul futuro del fine dining è perentorio: «Mi chiedo fra dieci anni che fine possa fare. Troppe sono le questioni aperte e difficilmente risolvibili, dal potere di acquisto ai costi di gestione arrivando alla possibilità di trovare personale all’altezza dal punto di vista della formazione e della voglia di “sacrificio”, che non giocano a suo favore. C’è bisogno di più leggerezza, con la possibilità anche di sbagliare, cosa che il fine dining, soprattutto se stellato, non può fare. Credo quindi, anche alla luce della mia esperienza imprenditoriale e professionale, che ci sia una scelta quasi obbligata, nel breve periodo, di un ritorno a format più “popolari” e immediati. Magari con le tecniche e le competenze acquisite all’interno dell’alta ristorazione ma con un approccio più semplice e immediato. Di stare seduti al tavolo per due o tre ore la vedo sempre più difficile che possa essere la strada del futuro».

Non la pensa tanto distante nemmeno Andrea Gori. Dal suo osservatorio trattorial-fiorentino con Burde il commento è molto chiaro: «Per come lo si è conosciuto, il fine dining rischia fortemente l’estinzione se non trova efficaci metodi di contaminazione e trasformazione gestionale. Soprattutto nei grandi centri d’attrazione turistica questo format sta veramente soffrendo. I turisti non ci vanno perché vogliono la tradizione, i residenti nemmeno perché costi, atmosfere e offerta culinaria si distanzia dai loro desideri e dalle loro esigenze. Il futuro della ristorazione di qualità, emozionale, capace di trasmettere non solo il gusto, l’autentico e il buono ma anche l’ambiente vero della convivialità, penso non possa che passare dalla trattoria. Nel senso autentico del termine però, non quella plastificata, omologata e banale da grandi numeri legati all’over tourism, ma quella che sa parlare la lingua autentica del territorio, delle materie prime di altissima qualità, della tecnica e soprattutto di un servizio caldo, accogliente e vero».

Il futuro della ristorazione di qualità, emozionale, capace di trasmettere non solo il gusto, l’autentico e il buono ma anche l’ambiente vero della convivialità, penso non possa che passare dalla trattoria.

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Andrea Gori

Serve conoscenza

Il “necessario” o se vogliamo “rivoluzionario” cambio di passo per la ristorazione fine è un’idea sostenuta anche dalla coppia di vita e lavoro dello stellato Bros. In un’intervista recente (https://www.fancymagazine.it/cover/delicious/), Floriano Pellegrino e Isabella Potì sono chiari: «Secondo noi il fine dining sarà meno elitario e più alla portata di tutti, non tanto in termini di spesa, quanto in termini di conoscenza e voglia di fare un certo tipo di esperienza gourmet. Ci dispiace dire invece che, secondo noi, il fine dining si concentrerà sempre più nelle grandi città. Per quanto riguarda invece ciò che accadrà nei ristoranti, sarà sicuramente un ritorno al classico e al delicious». Un approccio netto, diretto e verace ma che trae origine da una verità profonda. I catalizzatori dei flussi d’interesse turistico non sono, in Italia, solamente i grandi centri urbani.

Sarà sicuramente un ritorno al classico e al delicious.

Floriano Pellegrino e Isabella Potì

È vero che è lì che l’arte e la cultura diventano la tavola sulla quale servire piatti che sappiano entrare in sintonia con il lessico dell’offerta che è l’esperienza italica, ma lo Stivale è fatto soprattutto di provincia, di campanili, di piccole-grandi storie.

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Far parlare il territorio con la giusta dose di fantasia e tecnica non solo rende una portata un’esperienza unica, ma le dà il tocco caldo dell’empatia che il cliente ricerca sempre di più.

Riccardo Cevenini

Un esempio è La Rotonda di Lido Adriano, sulla riviera romagnola. Qui Riccardo Cevenini da oltre una decina di anni guida una brigata che porta il territorio e l’autenticità dei sapori contaminati di Romagna, d’Adriatico e di valle, nel piatto. Non c’è “stella” in insegna, ma i piatti parlano la lingua di un’autentica rappresentazione neo fusion. «Oggi lo chef deve saper far emozionare. Un piatto iper tecnico, perfetto nell’assemblaggio e nel rispetto delle caratteristiche organolettiche è questione ampiamente condivisa. Serve però più anima ed empatia. Far parlare il territorio con la giusta dose di fantasia e tecnica non solo rende una portata un’esperienza unica, ma le dà il tocco caldo dell’empatia che il cliente ricerca sempre di più. Bisogna però allenare i palati e coltivare la curiosità di chi sceglie di mangiare fuori casa. Il nostro ruolo è questo. Non offrire un’esperienza di maniera. Non è cosa semplice e immediata da raggiungere, serve perseveranza e pazienza».

Oggi credo che anche chi può spendere preferisca farlo stappando una bottiglia di un certo tipo, abbinando cibi semplici fatti con grandi materie prime.

Paolo Cappuccio

Un passo ancora più avanti lo fa Paolo Cappuccio, ex chef stellato oggi felice consulente per importanti realtà e docente, tra gli altri, di Cast Alimenti: «I ristoranti di fine dining che sanno emozionare e ricompensare il conto finale con il godimento e lo stupore sono davvero pochi. Oggi credo che anche chi può spendere preferisca farlo stappando una bottiglia di un certo tipo, abbinando cibi semplici fatti con grandi materie prime: basta un Pata Negra, una fetta di ottimo salame, due ostriche e una bottiglia di Champagne per essere felici». Un inno alla semplicità e all’epicureismo più vero.

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